E ancora, molti non sapranno che Chernobyl non produceva soltanto energia elettrica: nella centrale di produceva anche plutonio di grado militare. Una scelta poco saggia e che non poteva garantire la sicurezza dei lavoratori né dell’area circostante, in quanto la produzione di plutonio richiedeva temperature troppo alte e che superavano i limiti di sicurezza. La sicurezza, in generale, venne gestita malissimo: la sera dopo l’incidente non era ancora stata disposta l’evacuazione dei 47mila abitanti della città. Ancor più grave è il fatto che molti cittadini si sono recati sul ponte della ferrovia per ammirare da vicino l’incendio multicolore della grafite. Uno spettacolo fatale.
Dopo l’incidente, si sono tenute diverse battute di caccia ai cani abbandonati della zona; la priorità era abbatterne quanti più possibile per evitare che la radioattività si spargesse attraverso i randagi e le loro carcasse. Un’azione che a prima vista può sembrare crudele, ma che ha concesso una morte veloce agli animali e ha prevenuto ulteriori contaminazioni radioattive.
Come sappiamo, non sono solo gli animali ad aver perso la vita; oltre alle vittime dell’incidente, dobbiamo ricordare anche i liquidatori, migliaia di lavoratori che nel biennio successivo all’esplosione, hanno lavorato alla rimozione delle scorie radioattive e all’isolamento del reattore. Furono più di 2000 i liquidatori che hanno lavorato a Chernobyl, perché i loro turni di lavoro duravano solo 40 secondi. Un’esposizione più prolungata alle scorie li avrebbe uccisi immediatamente.
Tra gli addetti che lavoravano nella centrale, alcuni dei sopravvissuti hanno condotto vite molto diverse. È il caso del capo degli scienziati, il chimico Valerij Legasov; dopo l’incidente, la sua opinione controversa causò la rovina della sua brillante carriera e a distanza di due anni dall’esplosione si è impiccato. Diversa invece la storia di Nikolai Fomin, il capo ingegnere che fu recluso perché dichiarato uno dei colpevoli della tragedia; nel 1990 fu dichiarato non sano di mente ma qualche anno dopo uscì dall’ospedale psichiatrico perché decretato guarito.
Inaspettatamente, è tornato al lavoro nella centrale nucleare di Kalinin, vicino Mosca. Il terrore di quel fatale giorno non è ancora finito: non solo molti malviventi si addentrano tutt’oggi nelle zone colpite per razziare gli appartamenti disabitati, ma è sempre viva la paura di una seconda esplosione. All’interno del sarcofago che circonda il reattore divampa ancora un incendio che produce lava semiliquida e altamente radioattiva; se questa toccasse il suolo o una falda acquifera, un secondo disastro sarebbe assicurato, e la paura potrebbe durare più di un secolo.
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